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“Ogni generazione può creare il progresso ritirandosi al momento giusto."
Patricie Holečková

7.1 Le conseguenze del passaggio generazionale sui rapporti di lavoro in essere

Dal punto di vista normativo, in specie del diritto del lavoro, il fenomeno del passaggio generazionale di un’azienda è disciplinato principalmente sotto l’aspetto del mutamento della titolarità dell’attività economica organizzata e, dunque, della successione nella titolarità dei rapporti di lavoro in essere. Qualunque sia lo strumento giuridico scelto per l’attuazione di tale passaggio (abbiamo visto il trasferimento per cessione dell’intera azienda o di un suo ramo, e successione ereditaria, ma possiamo considerare anche l’ incorporazione di altra attività, fusione, affitto d’azienda, scissione ed usufrutto), in ogni caso ad esso consegue la modifica della titolarità dei rapporti di lavoro dal lato datoriale. Rimangono esclusi da tale automatico effetto i casi di cessione di pacchetto azionario (anche se di controllo), nei quali, pur modificandosi la compagine sociale, non vi è modifica della titolarità del rapporto di lavoro (Cass. Civ. n. 6131 del 12.03.2013 e Cass. Civ. n. 9251 del 18.04.2007). Merita precisare sin da ora che, per trasferimento d'azienda, si deve intendere qualsiasi operazione che, a seguito di cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata (con o senza scopo di lucro) preesistente al trasferimento e che conservi nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato, ivi coml'usufrutto o l'affitto di azienda. Le medesime disposizioni normative si applicano, altresì, al trasferimento di parte – o ramo – dell'azienda, questa intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento. Sotto taluni profili, e soprattutto quanto al regime di solidarietà previsto dall'art. 29, c. 2 D.Lgs. 276/2003, inoltre, la cessione di ramo d’azienda è assimilabile all’utilizzazione di ramo aziendale da parte dell’appaltatore in forza di contratto d’appalto. Tornando, dunque, alla modifica della titolarità del rapporto di lavoro, dobbiamo fare riferimento in particolar modo all’art. 2112 Cod. Civ., così come modificato ed integrato nel tempo dall’art. 47 L. 428/90, dal D.Lgs. 18/2001 e dall’art 32 D.Lgs. 276/20003. L’art. 2112 Cod. Civ., nella sua attuale formulazione, al primo e secondo comma prevede che in caso di trasferimento d'azienda il rapporto di lavoro continui con il cessionario, ed il lavoratore conservi tutti i diritti che ne derivano. Il cedente ed il cessionario, inoltre, sono obbligati in solido per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento; tuttavia quest’ultimo può consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro (seguendo le procedure di cui agli artt. 410 e 411 cod.proc.civ.). È evidente come il Legislatore con tale disposto abbia inteso salvaguardare la parte debole del rapporto di lavoro, storicamente individuata nel lavoratore, il quale nel processo di passaggio generazionale e di conseguente mutamento dell’azienda-datrice di lavoro, rischierebbe altrimenti di perdere i diritti acquisiti o, peggio ancora, il posto di lavoro. Ad ulteriore garanzia dei diritti dei lavoratori “trasferiti”, il cessionario è tenuto ad applicare ai lavoratori i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali, vigenti alla data del trasferimento fino alla loro scadenza, salvo che essi vengano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all'impresa del cessionario (l'effetto di sostituzione, in ogni caso, si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello ex art. 2112, c. 3 Cod. Civ.). Inoltre, il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Simmetricamente, non è nemmeno riconosciuta al lavoratore la possibilità di opporsi o contrattare il trasferimento. Al lavoratore, però, è riconosciuta (ex art. 2112, c. 4 Cod. Civ.) la facoltà di esercitare il recesso; più in particolare, in caso di sostanziale modifica delle condizioni di lavoro, nei tre mesi successivi al trasferimento d'azienda egli può rassegnare le proprie dimissioni ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 2119, c. 1 Cod. Civ.. Il nostro ordinamento, infatti, riconosce a ciascuno dei contraenti (ossia datore di lavoro e lavoratore) il potere di recedere dal contratto prima della scadenza del termine (se si tratta di contratto a tempo determinato) o senza preavviso (se si tratta di contratto a tempo indeterminato), qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro in essere. Una tale situazione, in specie, si verifica quando da una delle parti sono realizzati comportamenti o fatti che infrangono le disposizioni di legge regolanti l'esecuzione della prestazione e volte a garantire la qualità e l'affidabilità del servizio erogato dal datore di lavoro. Si è detto, dunque, che – in caso di trasferimento d'azienda – i rapporti di lavoro in essere al momento del passaggio (con qualunque strumento giuridico esso sia attuato) proseguono con il cessionario; s’è detto anche che i lavoratori conservano i diritti che da tali rapporti derivano loro: il lavoratore, quindi, ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa. A ciò si aggiunge che, secondo le modifiche apportate all’art. 2103 Cod. Civ. dal D.Lgs. 20.02.2015 in attuazione del c.d. Jobs Act , il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, oppure a mansioni comunque riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. Così come esiste la possibilità di assegnazione a mansioni superiori – ed in questo caso il lavoratore ha diritto ad un aggiornamento del trattamento in corrispondenza della nuova attività svolta –, altrettanto è previsto nell’ordinamento che il lavoratore venga adibito a mansioni di livello inferiore. Ed invero, in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidano sulla posizione del lavoratore (come avviene nel caso di mutamento della titolarità del rapporto per passaggio generazionale) lo stesso potrebbe essere assegnato anche a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore. Altrettanto, inoltre, potrebbe essere previsto dai contratti collettivi (anche aziendali) stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In ogni caso, va precisato che il mutamento di mansioni, ove necessario, deve essere accompagnato dall’assolvimento dell’obbligo formativo relativo alla nuova mansione (pur se il mancato adempimento a tale obbligo non determina la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni). Nelle apposite sedi, tra cui le Commissioni di certificazione di cui all’art. 76 D.Lgs. 276/2003, datore e lavoratore possono sottoscrivere singoli accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Sempre nell’ambito di una normativa tutela per la posizione del lavoratore, è previsto che egli non possa essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra – a garanzia del mantenimento della stessa sede di lavoro –, salvo per sussistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive dell’azienda. In ipotesi di mutamento della titolarità del polo datoriale del rapporto di lavoro, dovuto – come in specie – ad un cambio generazionale dei vertici dell’azienda, le organizzazioni sindacali mantengono una funzione di mero controllo. L’art. 47 L. 428/90, poi, prevede una procedura da seguire ogni qual volta in un’azienda con più di 15 dipendenti (apprendisti e co.co.co./co.co.pro. esclusi, lavoratori con contratti part-time conteggiati in proporzione all’orario di lavoro eseguito) si ponga in essere un’operazione straordinaria, quale la cessione totale/parziale: trattasi, in sostanza, di una informazione preventiva alle organizzazioni sindacali interne, RSU o RSA, o, in assenza di queste, alle organizzazioni sindacali esterne firmatarie del CCNL applicato. Detta procedura prevede una comunicazione, con data certa e a firma congiunta di cedente e cessionario, in cui vengono riportate in modo chiaro le informazioni inerenti la materia del lavoro: la data prevista del trasferimento, i motivi del trasferimento, le conseguenze economiche giuridiche, nonché sociali, per i dipendenti e, infine, le eventuali misure previste. Il Ministero del Lavoro con nota del 21.05.2001 n. 5/26570/70 ha ulteriormente precisato che l’obbligo di informazione deve essere inviato almeno 25 giorni prima dell’atto vincolante fra le parti. Il dies a quo per il decorso a ritroso del termine è da individuare nella data in cui viene effettuata l’iscrizione del contratto traslativo nel registro delle imprese o in quella in cui si sia raggiunta una «intesa vincolante tra le parti, se precedente» (per la interpretazione del termine “vincolante” si rimanda alla nota ministeriale cit., che esclude esservi ricompresi l'eventuale contratto preliminare di cessione d’azienda o gli atti societari interni, come le delibere assembleari). Inoltre, su richiesta delle organizzazioni sindacali il cedente ed il cessionario sono tenuti ad un incontro informativo circa i motivi e le conseguenze dell’operazione in corso. Se pur non previsto quale obbligo, si ritiene di consigliare la verbalizzazione di tale incontro a dimostrazione dell’avvenuta consultazione. L’intera procedura descritta deve esaurirsi nei 10 giorni successivi all’inizio delle consultazioni, e quest’ultime siano richieste regolarmente entro 7 giorni dalla comunicazione iniziale di cedente e cessionario. Trascorsi tali termini l’esame s’intende esaurito e l’azienda può procedere senza ulteriori indugi. Il mancato rispetto puntuale della procedura costituisce condotta antisindacale, con le note conseguenze previste dall’art. 28 L. 300/70. Più in particolare, sulle conseguenze di detta inosservanza, la giurisprudenza si divide in due orientamenti: un primo, più restrittivo e datato, prevede la nullità dell’atto di trasferimento; mentre il secondo, più recente, riconosce piena validità all’atto, ma sanziona il comportamento antisindacale in base al citato art. 28. Una volta esaurita la fase burocratica e di informazione, di cui sopra, dovrà poi esserne data comunicazione ai lavoratori annunciando ufficialmente: il nuovo datore di lavoro, la data di passaggio e l’eventuale nuovo CCNL applicato, il regolamento aziendale ecc. . In conclusione, nell’ipotesi specifica di mutamento della titolarità del rapporto di lavoro, il dipendente conserva anzianità di servizio, inquadramento, retribuzione, ferie e permessi maturati, ratei di retribuzione differita, già maturati, ed il trattamento di fine rapporto maturato (sempre salvo diverse previsioni singolarmente pattuite ai sensi degli artt. 410 e 411 cod.proc.civ.). Dette poste saranno trasferite contabilmente dalla vecchia alla nuova azienda e pagate al dipendente a scadenza. Mentre di per sé il trasferimento d’azienda non costituisce un giustificato motivo per il licenziamento, il lavoratore nei tre mesi successivi può rassegnare le dimissioni per giusta causa (art. 2112, c. 3 cod. civ.), con diritto a percepire l’indennità sostitutiva del preavviso, dimostrando un sostanziale peggioramento delle condizioni di lavoro derivanti dal trasferimento stesso. L’art. 13 del C.C.N.L. dei Dirigenti aziende industriali, inoltre, in caso di operazione straordinaria prevede la possibilità di rassegnare le dimissioni senza preavviso e con il riconoscimento di un terzo dell’indennità sostitutiva del preavviso. Tale possibilità deve comunque essere esercitata entro 180 giorni dalla data dell’avvenuto cambiamento.

7.2 Possibili risvolti problematici della successione nella titolarità dei rapporti di lavoro

Sino ad ora si è detto che l’effetto principale del trasferimento d’azienda (o di un ramo di essa), per quanto attiene ai rapporti di lavoro, è quello di garantire al lavoratore ceduto la continuità del proprio rapporto di lavoro, mantenendo tutti i diritti e le condizioni economiche già acquisiti presso il datore cedente al momento della cessione dell'azienda (art. 2112, cc. 1 e 3 Cod. Civ.). Per dottrina e giurisprudenza prevalenti, poi, è irrilevante il consenso da parte del lavoratore trasferito, in quanto trattasi di una successione legale di contratto, quale che sia lo strumento tecnico-giuridico attraverso il quale venga realizzato il trasferimento (ex multis Cass. Civ. n. 14670/2004; Cass. Civ. n. 15015/2002), ciò in deroga al requisito del consenso del contraente ceduto prescritto dall’art. 1406 Cod. Civ. Si è anche osservato come il secondo comma dell’art. 2112 Cod. Civ. preveda un regime di solidarietà tra cedente e cessionario rispetto ai crediti che il lavoratore avesse già maturato al momento del trasferimento, in ragione del rapporto di lavoro con l’impresa cedente. Ne consegue che, nei confronti del lavoratore-creditore, al primo debitore (il datore di lavoro cedente) si aggiunge un secondo debitore (il datore cessionario), potendo il prestatore di lavoro agire indifferentemente tanto nei confronti dell’uno quanto dell’altro, per il recupero del proprio credito. Detto regime di solidarietà, tuttavia, incontra taluni limiti. Di un primo limite già si è accennato: con le procedure previste dagli artt. 410 e 411 cod.proc.civ. il lavoratore può consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro (art. 2112, c. 2 Cod. Civ.). Quanto ad un secondo, è ancora la disposizione a commento ad indicare che nell’ambito del suddetto regime rientrano i soli crediti derivanti da rapporti di lavoro esistenti al momento del trasferimento d’azienda, escludendosi quelli già cessati («Il cedente ed il cessionario restano obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento» art. 2112, c. 2 Cod. Civ.). In tal senso, significativa è la sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, n. 7517/2010 che afferma: «La disciplina posta dal secondo comma dell'art. 2112, cod. civ., che prevede la solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti vantati dal lavoratore al momento del trasferimento d'azienda, a prescindere dalla conoscenza o conoscibilità degli stessi da parte del cessionario, presuppone - al pari di quella prevista dal primo e terzo comma della medesima disposizione quanto alla garanzia della continuazione del rapporto e dei trattamenti economici e normativi applicabili - la vigenza del rapporto di lavoro al momento del trasferimento d'azienda, con la conseguenza che non è applicabile ai crediti relativi ai rapporti di lavoro esauritisi o non ancora costituitisi a tale momento, salva in ogni caso l'applicabilità dell'art. 2560 cod. civ. che contempla, in generale, la responsabilità dell'acquirente per i debiti dell'azienda ceduta, ove risultino dai libri contabili obbligatori». Pertanto, salvo deroga espressa attraverso le procedure previste dagli artt. 410 e 411 cod.proc.civ., per la tutela dei crediti dei lavoratori il cui rapporto si sia risolto anteriormente alla cessione troverà applicazione l’art. 2560 Cod. Civ. ed il datore-cessionario risponderà solidalmente per i debiti dell’azienda solo se questi risultano da libri contabili obbligatori (Cass. Civ. n. 7517/2010). Quanto esposto circa il regime della responsabilità solidale, tuttavia, non vale per i crediti contributivi nei confronti degli istituti previdenziali e per il Trattamento di Fine Rapporto (T.F.R.). I primi, infatti, in forza di un consolidato orientamento giurisprudenziale, sono esclusi dall’applicazione dell’art. 2112, c. 2 Cod. Civ. in quanto il creditore del debito contributivo non è il lavoratore, bensì l’ente previdenziale, il quale, dunque, si pone, rispetto al trasferimento d’azienda, come terzo creditore, in posizione diversa da quella tutelata dall’art. 2112 Cod. Civ. (così in Cass. Civ., Sez. Lav. n. 8179/2001, ove si legge che «in caso di trasferimento di azienda, i debiti contratti dall'alienante nei confronti degli istituti previdenziali per l'omesso versamento dei contributi obbligatori, esistenti al momento del trasferimento [...] restano soggetti alla disciplina dettata dall'art. 2560 cod. civ [...]»). Per quanto riguarda i debiti riferiti ai premi assicurativi nei confronti dell’INAIL, poi, esiste una norma specifica, l’art. 15 D.P.R. n. 1124/1965, nella quale è previsto che il datore di lavoro cessionario sia solidalmente obbligato al cedente, salvo l’eventuale diritto di regresso, per i premi INAIL ed i relativi costi accessori relativi all’anno in corso al momento del trasferimento nonché ai due anni precedenti. Quanto, infine, ai T.F.R. l’orientamento maggioritario, sostenendo la natura di retribuzione differita del Trattamento, ritiene che il datore di lavoro cedente sia obbligato al pagamento delle quote maturate dal lavoratore fino alla data del trasferimento d’azienda, e che, per tale credito del lavoratore, sussista il vincolo di solidarietà tra cedente e cessionario di cui all’art. 2112, c. 2 Cod. Civ. Quanto alla quota di T.F.R. maturata dal lavoratore successivamente al trasferimento dell’azienda, invece, unico obbligato è il datore di lavoro cessionario (rif. Cass. Civ. n. 20837/2013; Cass. Civ. n. 11479/2013 che specifica, tra l’altro, come «[...]il lavoratore è legittimato a proporre istanza di fallimento del datore che abbia ceduto l’azienda, essendo creditore del medesimo»; Cass. Civ. n. 19291/2011). Ulteriore limite al regime di solidarietà, inoltre, si rinviene nell’art. 47 L. 428/1990 (così come modificato dal D.L. 135/2009, conv. con mod. in L. 166/2009, a seguito della sentenza C-561/2007 dell’11.06.2009 della Corte di Giustizia Europea), a mezzo del quale il Legislatore ha introdotto una possibile deroga alle garanzie individuali dei lavoratori, di cui all’art. 2112 Cod. Civ., in relazione a situazioni di crisi aziendali difficilmente recuperabili (per le quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, si sia posta l’amministrazione straordinaria, vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo, sia stato omologato l’accordo di ristrutturazione dei debiti ovvero, secondo un diverso percorso derogatorio, procedure concorsuali con dichiarata finalità liquidatoria). Il rinnovato art. 47 cit., al quinto comma, infatti, prevede che: «Qualora il trasferimento riguardi imprese nei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo [...] e nel corso della consultazione di cui ai precedenti commi sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell'occupazione, ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l'acquirente non trova applicazione l'articolo 2112 del codice civile, salvo che dall'accordo risultino condizioni di miglior favore»; al c. 4bis, poi, è stabilito che: «Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione, l’art. 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo [...]». Lo stesso art. 47 cit., al sesto comma, riconosce ai lavoratori del datore cedente che non passino alle dipendenze del cessionario un diritto di precedenza nelle assunzioni che quest’ultimo effettui entro un anno dalla data del trasferimento (o entro il maggior periodo stabilito dagli accordi collettivi). Nei confronti dei suddetti lavoratori, assunti ex novo dal datore cessionario dopo il trasferimento d’azienda, non troverà chiaramente applicazione la disciplina garantistica di cui all’art. 2112 cod. civ., essendosi instaurato un nuovo rapporto di lavoro. Chiarita, dunque, l’operatività del meccanismo di solidarietà tra datori cedente e cessionario nei confronti dei crediti dei lavoratori, pare opportuno volgere lo sguardo ad un altro comma dell’articolo a commento: ai sensi dell’art. 2112, c. 4 cod. civ. «Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento», né per il datore cedente, né per il cessionario. Ne consegue che, in caso di licenziamento intimato dal datore cedente ed illegittimo poiché basato unicamente sul fatto del trasferimento, il giudice riconoscerà la nullità del recesso per violazione di norma imperativa, con conseguente prosecuzione del rapporto di lavoro con il datore cessionario e conservazione nei confronti di quest’ultimo di tutti i diritti già esistenti verso il cedente. Inoltre, in caso di licenziamento da parte del datore cedente, immediata riassunzione dello stesso lavoratore da parte del cessionario e ininterrotta continuità dell’attività lavorativa, il rapporto di lavoro si considera come unico e continuo, salvo dimostrazione dell’assenza di relazione tra licenziamento e trasferimento, della mancanza di intento fraudolento o dell’esplicito ed anteriore consenso del lavoratore alla risoluzione immediata (Cass. Civ. n. 4944/1998 confermata più di recente anche da Cass. Civ. n. 11424/2006). Tanto osservato, tuttavia, non è esclusa tout court la possibilità in capo al datore cedente, ovvero anche al cessionario, di attuare licenziamenti in presenza di un giustificato motivo e nel rispetto della disciplina e delle procedure previste dalla normativa vigente in materia: «Il potere di licenziamento, che il datore conserva per l'art. 47 della L. 29 dicembre 1990, n. 428, ha fondamento non nel trasferimento d'azienda, bensì nella generale (preesistente) normativa; e fondamento è anche il giustificato motivo oggettivo. A ragione del suo stesso fondamento, questa oggettività può tuttavia avere giustificazione solo nello spazio della struttura aziendale, autonomamente considerata; non nella connessione con il trasferimento (come finalità di agevolare il trasferimento stesso) [...]» (Cass. Civ. Sez. Lav. n. 15495/2008). L’evento del trasferimento d’azienda può, ad esempio, concorrere a costituire giustificato motivo di licenziamento del lavoratore da parte del cedente (per la necessità di provvedere, al fine di attuare la cessione, ad un ridimensionamento dell’aspetto organizzativo dell’azienda). Così in caso di licenziamento del lavoratore da parte del cedente, vieppiù se vi sia immediata sua riassunzione da parte del cessionario, il datore di lavoro deve dimostrare l’assenza di relazione tra licenziamento e trasferimento, l’esistenza di un’autonoma e lecita causa di giustificazione del recesso, la mancanza di qualsiasi intento fraudolento; oppure deve provare l’effettivo, esplicito ed anteriore consenso del lavoratore alla risoluzione immediata; altrimenti il rapporto di lavoro si considera come unico e continuo, nonostante la sostituzione di uno dei contraenti e l'intervento di un recesso eventualmente anche formalizzato (Cass. Civ. n. 4944/1998). A termine di quanto sino ad ora esposto, quali ultime riflessioni sul tema, si pongono due questioni pratiche. In primo luogo, ci si chiede che ne sia di un licenziamento operato dal datore cedente, successivamente giudicato illegittimo e, dunque, invalidato dal giudice del lavoro a cessione già avvenuta. bbene, in questa ipotesi di licenziamento illegittimo la giurisprudenza di legittimità riconosce pacificamente come, avendo tale recesso un effetto estintivo precario e destinato ad essere travolto dalla sentenza del giudice, il rapporto di lavoro venga ripristinato tra le parti originarie (ossia tra lavoratore e datore cedente) e, in virtù del meccanismo previsto dall’art. 2112, c. 1 Cod. Civ., si trasferisca automaticamente in capo al cessionario (Cass. Civ. n. 5507/2011). Ne consegue che, quand’anche licenziato dal datore cedente, a seguito della sentenza favorevole, il lavoratore illegittimamente licenziato riprenderà a prestare la propria attività alle dipendenze del nuovo datore (cessionario), con medesimezza dei diritti goduti in precedenza in dipendenza dal rapporto di lavoro. In secondo luogo, avendo già osservato come ai fini della cessione non sia necessario il consenso dei lavoratori (Cass. Civ. n. 2666/2005), ci si domanda che accada, e come si debba comportare il datore di lavoro cedente, in caso di espressa opposizione del lavoratore alla cessione, ossia di rifiuto dello stesso a prestare la propria attività alle dipendenze del nuovo datore (cessionario). In tale evenienza si ritiene opportuno distinguere due ipotesi. Se il datore ha ceduto l’intera azienda, egli potrebbe legittimamente recedere dal rapporto di lavoro, licenziando il lavoratore dissenziente, in quanto l’integrale venir meno dell’attività aziendale costituisce giusto motivo di licenziamento. Diversamente, qualora vi sia stata solo cessione di un ramo dell’azienda, il datore cedente potrebbe legittimamente recedere a patto di riuscire a dimostrare la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo dato, ad esempio, dall’impossibilità di occupare proficuamente il dipendente nei restanti rami aziendali. L’ipotesi della cessione del ramo d’azienda merita una nota ulteriore, a concludere l’intera trattazione che si è dedicata all’aspetto normativo del passaggio generazionale e, in particolare, a quello della disciplina dei rapporti di lavoro in essere al momento di tale passaggio. Si riconosce che l’ambito di applicabilità dell’art. 2112 Cod. Civ. sia stato notevolmente esteso in via ermeneutica nel corso degli anni, e che la norma sia tutt’ora considerata da molte aziende un sistema veloce di ristrutturazione, utile a far uscire molti dipendenti, licenziandoli o cedendoli ad altre aziende più o meno solide, ed escludendo la necessità del consenso individuale (che ex art. 1406 Cod. Civ. deve assistere la cessione di un contatto individuale di lavoro).Tuttavia, come si è visto, a favore del lavoratore stanno diversi possibili motivi di contestazione della legittimità del trasferimento e dell’eventuale licenziamento, tutti a garanzia della stabilità del posto di lavoro ed della conservazione dei diritti acquisiti. Non da ultimo, e qui sta l’ultima nota di riflessione in tema appunto di trasferimento parziale dell’azienda, egli potrebbe efficacemente contestare la sussistenza stessa del concetto di ramo d’azienda. La conseguenza non è di poco conto: come sottolinea la Suprema Corte, nella parte motiva di una pronuncia recente, ma rappresentativa di un orientamento consolidato, «sussiste l’interesse del lavoratore a far accertare in giudizio che un determinato complesso di beni, oggetto di trasferimento, non integra un ramo di azienda e, dunque, a far dichiarare, in assenza del proprio consenso, l’inefficacia della cessione nei suoi confronti in quanto il mutamento della persona del debitore non è indifferente per il creditore, dal momento che la solidarietà tra cedente e cessionario prevista dall’art. 2112 Cod. Civ. ha per oggetto solo i crediti del lavoratore ceduto “esistenti” al momento del trasferimento dell’azienda e non quelli futuri, onde è configurabile un pregiudizio a carico del lavoratore in caso di cessione dell’azienda a soggetto meno solvibile» (Cass. Civ. n. 8756/2014).

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